Portofranco Racconta
21 Novembre 2024 2025-01-15 11:42Portofranco Racconta
Le storie di Portofranco
Testimonianza di Mohamed Bouchbouk
Mi chiamo Mohamed, ho 31 anni, sono sposato con Maria e ho una bellissima figlia. Da circa 16 anni frequento, prima da studente poi da volontario, Portofranco, un centro di aiuto allo studio rivolto agli studenti delle scuole medie superiori. Se oggi penso a cosa sia Portofranco per me, mi vengono in mente tante cose, ma su tutte emerge la parola
“Speranza”. Ricordo benissimo il mio primo giorno, avevo 14 anni e avevo accompagnato mia sorella che aveva un appuntamento. Entrando ero rimasto stupito da quanti ragazzi e ragazze fossero li per studiare, dentro di me
pensavo: “Ma perché non sono fuori a giocare?”. Mentre tornavo a casa invece mi è sorta un’altra domanda:
“Ma tutti quegli adulti (giovani e un po’ meno giovani) che erano li ad aiutare quei ragazzi GRATIS, perché lo facevano?”. Sarò sincero, ci è voluto molto tempo prima di trovare delle risposte a queste mie domande. Nonostante questo primo incontro, il primo anno di liceo ho frequentato poco Portofranco in quanto a scuola andavo bene e non rischiando la bocciatura, non sentivo la necessità di chiedere aiuto a quel luogo. É durato poco come momento, in quanto a metà del secondo anno vedevo già alcune lacune e su suggerimento di mia sorella ho cominciato a frequentare, sempre con stupore ma con superficialità. Dopo i primi mesi di frequenza constante ho iniziato a conoscere bene sia le persone che ci lavoravano sia i ragazzi e più passava il tempo e più notavo un attaccamento diverso al posto, perché a un certo momento mi sono accorto che avevo proprio bisogno di andare non solo per studiare ma anche perché quelle persone erano diventate speciali, quasi familiari. Infatti di fronte a qualsiasi difficoltà mi veniva più facile
confidarmi con i responsabili e i ragazzi che con i miei compagni classe o di calcio, che fino a quel momento
pensavo fossero i miei unici amici. Avrei diversi esempi, ma per non prolungarmi mi piacerebbe raccontarLe quello che credo mi abbia cambiato la vita. Era l’inizio del quarto anno di liceo, nella mia testa avevo già deciso di cambiare scuola, perché nella mia avevano unito le due terze ed eravamo diventati 28 alunni; ero certo che quell’anno la scuola avrebbe cercato di bocciare più persone possibili per non portare in quinta troppi alunni. Dopo aver preso la decisione vado a Portofranco e spiego la mia “strategia”. Nel condividere con loro la decisione rimasi stupito da come in realtà nessuno di loro era felice della mia scelta, anzi, nei loro volti leggevo la delusione. Forse dando voce a tutti gli altri, una professoressa (che non conoscevo bene), mi rimprovera ripetendomi le seguenti parole: “Se decidi di prendere solo le strade facili, non sarai mai felice”. Io rimasi scioccato da quella frase, ci ho pensato una settimana intera e di fronte a quella provocazione decisi di rimanere nella mia scuola ed
affrontare quell’avventura.
Per me quella frase mi ha cambiato in quanto ho capito che dovevo prendere sul serio quello che facevo, come quella professoressa ha fatto con me. L’anno andò molto bene e ripresi a studiare senza accontentarmi di risultati sufficienti, volevo sempre di più. Anche per la scelta universitaria ho dato credito a quanto mi era stato detto dalla professoressa decidendo di iscrivermi all’università Cattolica del Sacro Cuore, nonostante non fosse scontato riuscire a prendere e a mantenere la borsa di studio. Di una cosa ero però certo: con quegli Amici sarei riuscito ad affrontare qualsiasi cosa. Il periodo in università è stato molto bello, per i compagni che avevo incontrato (sia del Movimento sia non). Durante il periodo in università ho iniziato a fare la caritativa a Portofranco. Per me era quasi scontato, ho ricevuto tantissimo da questo luogo e quindi mi sentivo obbligato. Anche qui è bastato veramente poco per farmi capire ancora di più il vero motivo per cui ci tenevo ad andare. Il primo giorno di caritativa i ragazzi più grandi del turno hanno proposto di leggere il senso della caritativa di Don Giussani come introduzione al gesto. Quelle frasi le ho ancora impresse perché era quello che sentivo dentro di me ma che non sapevo esprimere se non con la parola “obbligato”.
“Innanzitutto, la natura nostra ci dà l’esigenza di interessarci degli altri. Quando c’è qualcosa di bello in noi, noi ci sentiamo spinti a comunicarlo agli altri. Quando si vedono altri che stanno peggio di noi, ci sentiamo spinti ad aiutarli in qualcosa di nostro. Tale esigenza è talmente originale, talmente naturale, che è in noi prima ancora che ne siamo coscienti e noi la chiamiamo giustamente legge dell’esistenza. Noi andiamo in «caritativa» per soddisfare questa esigenza.”
Testimonianza di Mohamed Soliman
Mi chiamo Mohamed Soliman, detto “Momo”, sono di origini beduine e ho 32 anni. Ho incontrato Portofranco che di anni ne avevo 17 e provenivo da un quartiere della periferia milanese allora poco raccomandabile. Il mio incontro non è stato un caso, piuttosto direi “Destino”: quel giorno del 2008 mi sono trovato nella sede di Portofranco non di mia iniziativa, ma grazie ad un amico più grande che mi aveva chiesto di accompagnarlo, e poi quel giorno si è rivelato importante per me; grazie a Giovanni, ad Aurelio e al mio amico mi sono ritrovato iscritto e ho iniziato una storia che continua ancora oggi, che sono adulto e addirittura sposato. Con ogni importante passaggio della mia vita la volontà di Dio c’entra, soprattutto nel conoscere questi amici. Fare i nomi non è secondario per me: Albertino, Andrea, Aurelio, Daniela, Piotta, Alba, Rosa, Valerio, Antonella. Alcuni di loro mi cercavano sempre, qualunque fosse il guaio in cui mi ero cacciato; non mi mollavano mai, anche quando forse non me lo meritavo. Un giorno, mi ricordo, quando potevano chiamare la polizia, mi arrivò un messaggio che diceva così: “Ricordati che qualsiasi scelta farai nella vita, noi saremo sempre con te”. Allora mi sono detto: “Ma questi perché fanno così? Non gliene viene niente, è gratis. Chi glielo fa fare?”, insomma, man mano che vedevo tanta attenzione verso di me, ho iniziato a ragionare e a buttarmi nell’amicizia. Aderivo alle loro proposte perché con loro ero al sicuro dalle cavolate che avrei potuto fare. Un giorno mi ritrovai a Torino, alla Sacra Sindone, con i responsabili di Portofranco e un centinaio di ragazzi, l’unica persona che venne fermata dai carabinieri fui io! Mi avevano portato in gita con loro, anche se non conoscevano tutto della mia vita. Mentre io mi trovavo in custodia, Aurelio e Andrea si offrirono subito di garantire per me. Subito, senza esitare un secondo, dissero: “Sì, siamo i suoi educatori!” e i ragazzi di Portofranco, tutti, attesero di entrare nel santuario dicendo “O Momo entra o non entriamo neppure noi”. Quel giorno mi sono sentito una persona. Un successivo step della mia storia è stato in una vacanza, con i ragazzi di Gioventù studentesca, cristiani cattolici, e solo io musulmano. Li guardavo ed ero colpito dal modo in cui vivevano la giornata e soprattutto da come pregavano. Proprio lì ho iniziato a riscoprire la mia religione, che avevo perso. Ho ritrovato anche la bellezza dello studiare per conoscere, perché credere conoscendo è più bello di praticare senza conoscere. Mi bocciarono in quinta, all’esame di maturità. Anche in questo caso mi aiutò la famiglia di Portofranco. Per un anno, perché potessi studiare, fui ospitato in casa della Franca e di Fabrizio, detto Bizio. Ho accettato la loro proposta di ospitalità, perché, dopo aver cominciato l’anno, mi vedevo già bocciato. Per la prima volta nella mia vita, una stanza solo per me, tutta per me. La colazione pronta al mattino, la carne halal acquistata apposta, gli spiccioli per mangiare. Un’attenzione che toccava ogni particolare della vita, per me. Con le parole non so spiegare: era una vera famiglia, una seconda famiglia. Ora lavoro a Portofranco, dal 2012, e sono diventato un educatore a tutti gli effetti. Non mi sarei mai aspettato, anni fa, di portare oggi certe responsabilità a Portofranco; seguo i ragazzi e i volontari, oltre che occuparmi di tanti aspetti organizzativi. Voglio far di tutto per restituire tutto il bene che ho ricevuto.
Testimonianza di Nurgul Cokgezici
Sono Nurgul Cokgezici, Sono Curda, e sono nata del Kurdistan turco. Non avevo una patria neanche nella mia patria. Sono un’immigrata di
prima generazione. Perciò ho dovuto scoprire sulla mia pelle la difficoltà legate a una terra nuova e una lingua sconosciuta, ho vissuto tutta
la complessità di adattamento al nuovo paese e a compiere un percorso scolastico regolare. Oggi ho 38 anni, sono madre di tre bellissime
ragazze, e mi prendo cura di loro da sola. Ma il mio percorso è stato – ora lo comprendo – molto, molto difficile. Il sociologo franco algerino Abdel Malek Sayed
dice che i migranti vivono una doppia assenza: non appartengono più alla terra da cui provengono, e non gli viene consentito di appartenere a quella dove giungono. Vivono per difetto la prima cittadinanza, e per eccesso la seconda. Ci sono ma è come se non ci fossero.
Nessuno li vede, nessuno li ascolta. Portofranco è stato per me la prima “patria” dove sono potuta approdare. Ho scoperto da poco che quando si nasce in un contesto culturale e sociale, è molto difficile poterne uscire, specialmente se è saturo di
povertà e degrado, e se non c’è nessuno che ti aiuti e che si possa prendere cura di te.
Ho sempre desiderato studiare, e potere un
giorno aiutare gli ultimi, quelli dimenticati come
sono stata dimenticata io. La vita è stata generosa e ha esaudito questo desiderio, grazie soprattutto alle persone speciali che ho incontrato a Portofranco, dove ho sempre
trovato chi mi aiutasse, mi accompagnasse, in ogni passaggio della mia vita scolastica e quella successiva. Prima mi sono diplomata in
ragioneria e poi mi sono laureata in Mediazione
linguistica e Psicologia del lavoro. Ora ho un impiego come mediatrice linguistica, posso aiutare i profughi, quelli che sono rimasti senza
una terra, come lo ero io. Inoltre sono una educatrice in una scuola nel quartiere San Siro, dove posso seguire quelli che la società bolla
troppo presto come ragazzi difficili. Non li capisce, li allontana e spesso se ne disfa. Così come era stato per me alla loro età. In Università
sto contribuendo alla formazione di altri
mediatori culturali, costruendo spero una
speranza per chi verrà dopo di me. Portofranco è stato per me un luogo, dei muri e dei volti familiari, dove ho ritrovato la casa che avevo perso a nove anni. C’erano volontari e ed educatori che avevano una carezza per il mio cuore; so di dovere tanto a questo posto straordinario e alle meravigliose persone che mi hanno donato tanta bontà. Senza loro non so se avrei potuto farcela, ed è anche grazie a loro se ho compreso che esistesse un modo di stare al mondo che non fosse determinato dalla ricerca
del potere. Il mio grande Maestro Rumi, figlio della mia terra, dice che tutto è destinato a finire, l’uomo e le cose. Ciò che non finirà è invece l’Umanità. Questa solo rimane, e ognuno di noi
deve fare ciò che è nel suo potere per lasciarla a questo mondo. E’ una delle ragioni per cui siamo su questa terra.
Portofranco per me ha rappresentato proprio questo: seminare e coltivare umanità senza nessuna distinzione di etnia, religione o pensiero
politico. Sarò per sempre grata alle persone che
ho conosciuto a Portofranco per avermi dato la possibilità di appartenere all’Italia. Tanto che dallo scorso anno anche le mie figlie – la seconda generazione – hanno cominciato a frequentarlo, ed è per me motivo di
commozione.
Testimonianza di Valerio Billi
Sono Valerio, sono nato in un quartiere popolare di Milano. Fin da piccolo ho avuto uno
spiccato desiderio di giustizia: a 8 anni mi erano rimaste impresse nella mente le immagini trasmesse dalla televisione delle uccisioni di Falcone e Borsellino. Crescendo, i problemi in
famiglia, le mie difficoltà scolastiche, le incomprensioni coi professori hanno acuito quel desiderio che nel tempo é diventato rabbioso, perché mi sentivo vittima di ingiustizie. Arrivato alle scuole superiori, gli unici che mi sembrava condividessero quella rabbia erano i compagni che militavano nel collettivo studentesco. Ho aderito all’ideologia marxista,
vendendo giornali, occupando per mesi la scuola e partecipando a manifestazioni che talvolta sfociavano in violenza. Pensavo che l’unico modo per agire nella realtà fosse reclamare diritti contro tutti quelli che avevano le possibilità a me precluse. Frutto di questo stile di vita sono state le due bocciature nel primo triennio all’istituto tecnico che frequentavo
a Milano. All’inizio del terzo anno, Simone, un mio compagno di classe, mi ha indicato Portofranco, un
luogo in cui facevano ripetizioni scolastiche gratuitamente. Qui ho trovato Albertino, Alba e tanti volontari che mi hanno accolto, facendosi compagni, ma per davvero, alla mia vita. Con loro ho iniziato a studiare, dentro un programma settimanale che mi metteva all’opera e scommetteva su di me. Il Portofranco era diventato la mia seconda casa … e il frutto di questo stile di vita è stato il mio primo 8 in matematica! In questo luogo nessuno pretendeva che cambiassi, né che rinunciassi alle mie idee, anzi ero educato ad accogliere la diversità di tanti ragazzi (arabi, cinesi, sudamericani…) che come me chiedevano aiuto. Cominciava ad entrare in me l’ipotesi che era possibile agire non a partire dalla rabbia ma in modo costruttivo e che c’era anche per me un destino buono. Questa intuizione è maturata nella compagnia di Gioventù Studentesca, a cui sono stato invitato dagli amici del Portofranco. Ho ricominciato a frequentare la Chiesa. Non ero ateo, avevo ricevuto i sacramenti grazie ai miei genitori e ho sempre avuto una sensibilità religiosa, ma fino a quel momento, Dio mi
sembrava impotente di fronte alle mie ingiustizie e del mondo. A GS ho scoperto che in tutti quei volti a me familiari c’era qualcosa che andava oltre, qualcosa di di Dio che non mi aveva dimenticato. Una volta diplomato con una certa soddisfazione alle scuole superiori, ho deciso di
proseguire gli studi all’Università: non avevo chiaro cosa avrei voluto fare nel futuro, ma desideravo non perdere quella compagnia che mi faceva stare bene. Questo periodo è stato un’esplosione di vita, che mi ha insegnato a conoscere meglio ciò che avevo incontrato. Innanzitutto, grato dell’esperienza a Portofranco, sono tornato a fare il volontario per aiutare
io i ragazzini che erano in difficoltà a scuola. E questo è stato anche il primo luogo in cui ho portato Sara, la ragazza di cui mi ero innamorato e che oggi è mia moglie, perché sapevo che andando insieme a “caritativa” potevamo imparare ad amarci gratuitamente. Nella relazione con lei però mi sono accorto di aver bisogno di essere educato da volti precisi, che mi erano maestri anche se non necessariamente “capi”. Grazie a questo desiderio e alla trama di amicizie sincere nate all’interno del movimento, ho incontrato don Stefano (ora Fidei donum in Zambia) e Aldo. Con loro ho scoperto che Sara era un dono gratuito e altro da me, segno di Colui che avevo già incontrato al Portofranco ma che mi aveva sempre amato. Imparare ad amare un altro, è stato il modo per capire quanto sono stato amato. In questi anni, anche il mio desiderio di giustizia ha trovato una strada. È rinata, infatti, la mia
passione per la politica, condivisa con altri amici del Clu e guidata da chi aveva già esperienza nel campo. Mi affascinava in particolare il mio amico Aldo, che la viveva come servizio al popolo andando oltre il solo desiderio di potere. Ho così capito che il soggetto della storia è Dio, che attraverso gli uomini da lui chiamati costruisce una società nuova e più giusta, proprio come io aveva sperimentato al Portofranco. Terminata l’Università, negli anni del fidanzamento, in me e Sara è nata la domanda sul senso e l’utilità della nostra vita. Ancora una volta il Signore si è rifatto presente con chiarezza. Abbiamo conosciuto nuovi amici all’interno del movimento: Enrico e la fraternità Uganda, persone che avevano scelto di dare tutta la loro vita a Gesù in missione, prima in Africa e poi in altri paesi del mondo. Stando con loro abbiamo intuito che il senso della vita è la testimonianza, che non è proselitismo o uno spiccato altruismo, ma vivere pienamente la fede dove si è, perché tutti possano vederne la convenienza. Così paradossalmente abbiamo capito che la nostra missione era ed è in Italia a Cremona, dove mi sono trasferito anni fa per ragioni di lavoro. Ora, sposato, vivo le sfide del lavoro, nuove domande sulla realizzazione della mia vita
personale e sulla fecondità del mio matrimonio. Una volta, Albertino, responsabile del Portofranco, rivolgendosi a me in una sua testimonianza aveva detto: “Quando incontro un ragazzo è mio per sempre!”. Questa in fondo è la mia esperienza della Fede: io posso continuamente dimenticarmi di Dio, ma Lui
bussa insistentemente alla porta del mio cuore, usando le mie insopprimibili domande perché io possa nuovamente incontrarlo, attraverso nuovi volti. La mia vita così si rinnova e rinasce, grazie a continui testimoni che rendono ancora oggi per me vivo il carisma di don
Giussani. Così posso andare incontro anche ad altri che trovo sul mio cammino.
Testimonianza di Andrea Riminucci
Ho iniziato Portofranco il mio primo anno di università, un po’ perché pensavo che spiegare ai ragazzi cose che avevo capito e che mi affascinavano era una cosa che mi piaceva e che poteva essere di aiuto a loro. Dai primi momenti però è stato chiaro che Portofranco non poteva essere solo un posto dove fare ripetizioni o dove esporre la mia lezione di un’ora sui moti rettilinei. Non poteva esserlo perché dopo dei pomeriggi passati a spiegare tornavo a casa deluso e scontento perché nessuno dei ragazzi aveva imparato qualcosa. Così ho cominciato ad andare per trovare qualcosa che aiutasse me nelle mie giornate e fatiche quotidiane.
Andare a Portofranco è sempre stata una fatica soprattutto nei momenti appena prima di partire quando bisognava concretamente decidere se passare il pomeriggio a Portofranco o trovare una scusa per non andare e avere un pomeriggio libero. Eppure ogni volta che tornavo da Portofranco mi scoprivo sempre rilanciato a vivere le mie giornate. Stare con quei ragazzi aiutava prima di tutto me, anche nel mio studio.
Con il covid ho smesso di andare. Le lezioni da remoto non riuscivo a farle, per cui ho smesso e quando si è tornati in presenza, mi sono accorto che tutto quello che avevo visto che Portofranco riusciva a darmi potevo trovarlo anche da altre parti (banalmente una serata tra amici). Per cui non avendo più motivi per andare e “buttare” un pomeriggio, ho smesso.
Due anni dopo ho ricominciato, senza nessun particolare motivo, se non l’invito incalzante dei miei amici. Ricominciando ad andare sono rimasto stupito da due cose in particolare: appena messo piede a Portofranco tutti mi hanno salutato e riconosciuto dopo due anni che non mi vedevano, e mi hanno accolto come se mi avessero aspettato per due anni; la seconda cosa che mi ha colpito è che poco dopo aver ricominciato parlando con uno dei volontari di Portofranco e dicendogli che in fondo io non avevo motivi per andare, lui mi ha risposto che andava perché era grato per quello che aveva ricevuto nella sua vita.
Ho ripensato alla mia di vita, e ripensandoci non ho potuto fare a meno di accorgermi che anche io sono grato per tutto quello che ho ricevuto. Così ho iniziato ad andare avendo in mente questo, cioè che nella mia vita ho ricevuto qualcosa per cui essere grato. Ho iniziato a fare il doppio turno (sono passato dal fare un pomeriggio ogni due settimane a un pomeriggio a settimana), e anche i momenti prima di andare si sono trasformati: non sentivo più di dover scegliere se andare o dover inventare una scusa, io volevo andare.
Questa gratitudine, non mi ha fermato neanche quando mi sono trovato con un ginocchio bloccato e le stampelle: di fronte a quel fatto avevo tutte le scusanti per non andare, ma ho scoperto in questa circostanza che a Portofranco c’è un ascensore e questo mi ha permesso di continuare ad andare anche con le stampelle.
Non mi sono fermato neanche quando ho iniziato la tesi continuando ad andare anche l’ultimo giorno, che è stato proprio il giorno dopo la laurea.
Io non so cosa ho portato a quei ragazzi, se hanno visto qualcosa di quella gratitudine per cui andavo o se sono riusciti anche solo a capire un po’ di più l’elettromagnetismo o la somma tra vettori, ma io sono contento di aver passato questi anni a Portofranco perché mi ha dato l’opportunità di accorgermi di ciò che ho ricevuto e anche perché mi hanno detto che andando a Portofranco uno impara ad amare.
Per tutta la gratitudine che ho nei confronti di Portofranco ho deciso di lasciargli una copia della mia tesi. Non perché qualcuno possa capirla o apprezzarla (in fondo è una tesi in fisica scritta in inglese), ma perché ho voluto lasciare un pezzo del mio lavoro di questi anni in un luogo che mi ha aiutato a portarlo avanti.
Grazie Portofranco.
Testimonianza di Martina Zaninelli
LETTERA PORTOFRANCO
Sono arrivata a Portofranco il primo anno di università un po’ per casualità. Ogni anno successivo, però, fino a tre giorni prima della laurea magistrale, ho scelto di tornarci. Ciò che mi ha spinto è semplice: mi sono sentita fin da subito a casa. Ho potuto sperimentare, grazie agli amici con cui ho vissuto l’esperienza di Portofranco per questi cinque anni, grazie ai fantastici adulti incontrati, grazie ai ragazzi con i quali ho studiato, che ciascuno è un dono e, proprio per questa ragione, un arricchimento per me e per la mia vita. Ho scoperto, inoltre, cosa significhi imparare a poco a poco ad amare questi altri come doni.
Desidero custodire, ora che incomincia una fase della mia vita nuova, ricca di scelte grandi da prendere, queste scoperte perché credo fortemente che siano tesori preziosi e utili per affrontare le sfide quotidiane.
Vorrei ricordare alcuni momenti significativi della mia esperienza a Portofranco:
– il primo di questi riguarda la ri-scoperta di Portofranco durante i mesi di pandemia: l’anno precedente all’emergenza pandemica, non avevo chiare le ragioni per vivere con fedeltà questa esperienza, ragione per cui la maggior parte delle volte trovavo scuse per “saltare” il momento. Durante i mesi chiusi in casa ho invece sentito l’esigenza di parteciparvi in prima persona, dando la mia disponibilità anche per più di un giorno alla settimana e per attività di orientamento per i ragazzi. Questo ha fatto sì che, quando si è potuto riprendere con la modalità tradizionale, per la passione riscoperta, mi sono giocata interamente in Portofranco, desiderando di invitare amici e persone care.
– il secondo momento riguarda la festa di Natale dello scorso anno. In quell’occasione ho avuto modo di riconoscere il valore aggiunto che sono stati nella mia esperienza di Portofranco i volontari, adulti e giovani, compagni di strada di questa bellissima avventura.
Ho potuto sperimentare da vicino che veramente ciascuno di noi è un “fuoco da accendere” e per questa ragione desidero poter incontrare, in ogni circostanza della mia vita, amici che mi guardino come ho visto guardare i ragazzi a Portofranco e come ho potuto imparare a fare anche io.
Grazie e per sempre evviva la grande famiglia di Portofranco.
Martina Zaninelli
Testimonianza di Fiorella Torelli
Caro Momo mi hai chiesto di scriverti in caso mi fosse successo qualcosa di particolare a Portofranco.
Venerdì è venuta per una lezione una ragazza egiziana,Elena, che doveva fare grammatica, cose semplici come accenti, elisioni ecc, in realtà aveva già eseguito i compiti e voleva solo verificarli con me.
Mi ha detto che era stanca perché abitava lontano e aveva impiegato molto tempo per arrivare in più non aveva mangiato.
“Vai alle macchinette e prenditi qualcosa” le dico
“Non ho soldi” mi risponde
“Non c’è problema te li do io, prendimi anche un caffè “
Ritorna con caffè per me, patatine per lei e mi restituisce il resto.
Invece di metterci subito a correggere i compiti chiacchieriamo. Mi fa un mucchio di domande: da quando tempo vengo a Portofranco, se sono una prof, che cosa insegnavo….
Corretti i pochi esercizi che doveva fare abbiamo finito prima dello scadere dell’ora. Io avevo sul tavolo un libro che mi ero portata in casa avessi avuto qualche buco nelle lezioni. IL libro era L’Abbraccio di Michael Azurmendi che avevo deciso di rileggere. Elena mi ha chiesto di cosa parlasse il libro, chi fosse l’autore e perchè lo rileggevo.
Così per risponderle mi sono trovata “ingolfata” come dice Manzoni quando parla dell’Innominato, nella storia di Azurmendi, nella sua vita, nei suoi libri e nella sua improvvisa morte ad agosto.
Elena era attentissima e continuava a fare domande su questo antropologo, uomo di grande cultura ateo. Gli dico che si è convertito al cristianesimo per un incontro fortuito con un giornalista che lo ha affascinato e convinto.
Il tempo passava piacevolmente come tra due amiche che si intendono subito. Poi Elena mi ha parlato della sua famiglia dei suoi numerosi zii e cugini e di un matrimonio di una cugina in cui ci sarebbe stato un numero spropositato di invitati.
Intanto guardava il cellulare perchè aspettava un messaggio dal moroso.
L’ora è terminata e ci siamo salutate con una confidenza diversa dal solito ” ciao e grazie” . Mi è sembrato che inaspettatamente fosse nata un’amicizia un interesse reciproco che avrebbe, forse, lasciato tracce nelle nostre vite. Non so come ma già io ho deciso di scriverti e inviarti il testo.
Fiorella
I racconti di Giovanni Borgonovo
Il sorriso di suor Ada
Il sorriso di suor Ada
Se ne è andata in silenzio, senza far rumore, mercoldì 30 gennaio, il giorno prima della festa che più di tutte aspettava, S. Giovanni Bosco.
Avevo chiesto a Daniela, che il giorno prima era stata in ospedale a trovarla, se mi poteva accompagnare a salutarla, perché presentivo, da quel che mi aveva detto, che eravamo alla fine e io volevo vederla. Un po’ di corsa, sotto la pioggia, entriamo in ospedale ed eccoci nella camera di suor Ada. La troviamo di là da un paravento col volto coperto dal lenzuolo: il cuore ci balza in gola. Oh Dio. Diciamo l’eterno riposo, io un po’ macchinalmente, tale è il colpo preso, poi ci avviciniamo, le scopro il volto e toccandole le guance “Suor Ada, Suor Ada, sono il Giovanni, sono il Giovanni”. Volevo fare come Gesù: richiamarla. Ci dirà poi l’infermiere che era morta da pochi minuti. Andiamo nella sala d’aspetto e telefoniamo al convento per avvisare le suore e a qualche amico di Portofranco, tristi e un po’ smarriti.
Suor Ada, da poco in pensione, sbarca a Portofranco nel 2008 e poiché ci sono molti stranieri, Daniela le affiderà i ragazzi da poco in Italia. Si impegnerà con tutta l’anima a questo compito non facile per quattro giorni la settimana. Bisognava sentirla spiegare, ripeteva le parole adagio, più e più volte fin quando non entravano nella testa dei ragazzi. Il giorno dopo doveva, con alcuni, ripetere daccapo tutto e così via. Tenace non mollava mai. Esigente, a volte mi sembrava che sui dittonghi o le bisdrucciole si poteva chiudere un occhio, lei no.
Molti volontari l’andavano a salutare nell’auletta di italiano, alcuni si fermavano a fare quattro chiacchere: eran sempre parole ricche di passione per quel che faceva e ogni tanto ricordava qualche fatterello significativo della vita di don Bosco, era una salesiana. Io mi fermavo spesso a parlare con lei e così emergevan tante cose sui ragazzi, sulle loro e nostre difficoltà, sul cosa fare, ma io volevo conoscere anche la vita della comunità di cui era parte, la sua storia personale, la sua famiglia, Mirandola, la sua giovinezza, la sua vocazione, il suo mestiere di insegnante: un dialogo lungo dieci anni. Quel che emergeva in quei brevi dialoghi, spesso interrotti bruscamente dall’arrivo dei ragazzi che dovevano studiare con lei, era la passione e l’entusiasmo per ciò che faceva.
Di Portofranco la colpiva l’unità tra i membri dello staff e la cordialità e l’attenzione per i volontari, la grande apertura a una umanità così varia e l’interesse per tutto. Si trovava bene con noi e spesso diceva di respirare a Portofranco lo spirito di don Bosco. In questo lungo dialogo, da lei dominato, una cosa lentamente emergeva: il suo amore per Gesù o, come amava dire, “per il mio Sposo”. Era una espressione che avevo sentito, piccolo, all’asilo del mio paese, poi, non più. Questo sposo scaldava il suo cuore e, di riflesso, tutto quanto faceva e diceva. Salendo le scale, al primo piano, una frase di Plutarco ha colpito la mente di tanti che in questi anni ci hanno frequentato: “I ragazzi non sono vasi da riempire ma fuochi da accendere”. Forse suor Ada ha scoperto chi può dar fuoco a questi cuori spesse volte spenti, di grandi e piccoli.
A un certo punto Ada comincia la sua missione nel carcere di San Vittore e alterna la sua presenza tra Portofranco e i carcerati, per dedicare, poi, sempre più tempo ai carcerati. All’inizio Ada era impressionata dalle cose che ascoltava dai carcerati che chiedevano un colloquio con lei e che poi la volevan rivedere. Lei stessa era meravigliata di questa preferenza immeritata. Le cose che raccontavan spesso la turbavano ma la sua attenzione era ai loro volti, alla loro sofferenza, all’angoscia, alla solitudine e alla disperazione che dominavan quelle persone. Per lei rimanevan, seppur delinquenti o assassini, persone. E persone da amare. Non è cosa da poco in un mondo dove si ricorda solo il reato per cui uno è solo criminale e non più persona. Si arrabbiava se qualcuno, sentendola parlare con me dei suoi carcerati, diceva che per televisione aveva sentito dire che quello lì era un delinquente perché… alzando la voce, con tono imperioso “Taci che non capisci niente”. Ada non era per nulla un’ingenua che non capiva o non vedeva, era di un realismo che impressionava. Ma Qualcuno aveva lavato il peccato e lei Lo conosceva ed era in lei e le chiedeva di ripetere il suo gesto. Per questo i carcerati chiedevan di lei e a lei aprivan quel cuore che si era ormai chiuso. Raccontava, difronte alla loro disperazione, che Dio non abbandona mai, che siamo amati, che Gesù davanti al pentimento perdona, che siam preziosi per lui mentre loro si consideravan quasi persi e una nullità.
Come faceva a dire quelle cose, in quel posto? Non eran per loro parole astratte, tanto più perché, per lo più, eran lontani da quel Cristo Dio che magari bestemmiavano, comunque sentivan lontano. Eppure l’ascoltavano. Li rassicurava, quando vedeva che avevan paura dicendo “Io ci sono, non avere paura”. Eran le parole di Gesù ai discepoli sulla barca mentre c’era burrasca e avevan paura. E non c’era presunzione nel ripetere e far sue quelle parole. C’era la certezza della sua Presenza. Qual era il segreto di queste cose che mi sembravan esagerate, a volte fuori luogo?
Mi raccontava di uomini e donne, colpevoli di delitti gravi, che piangevano quand’eran con lei e la facevan entrare nella loro disgraziata vita. Ella scendeva con loro a profondità di male che non avrebbe mai immaginato e rimaneva turbata. Ma, proprio lì, trovava la forza di pronunciare quelle strane parole che avevan il potere di far risalire chiunque le ascoltasse, le afferrasse. Una corda piena di nodi scendeva con Ada, mano a mano risalivano con lei, quei nodi si scioglievano e così pure le loro facce contratte nella disperazione.
Ella davanti a loro era l’incarnazione misteriosa di quelle parole. C’era in lei un coraggio e una forza, un cuore grande e indomabile. Un darsi da fare inarrestabile, eppur era gravemente malata. Da dove le venivan queste virtù?
Ci aveva raccontato di un uomo che aveva ammazzato a picconate tre persone, era un sorvegliato speciale perché molto pericoloso. Non parlava con nessuno anche perché non sapeva l’italiano. L’estrema risorsa del carcere era Ada. Ella non si sottrae. Tutti in carcere stupiscono, e pure noi mentre racconta, perché a un certo punto suor Ada abbraccia quest’uomo che piange. Si impegnerà poi con grande fatica a insegnargli l’italiano: un’impresa quasi impossibile ch’ella affronta intrepida.
Arrivava a Portofranco così stremata e provata che spesse volte Daniela ed io la esortavamo a ritornare in convento per riprendersi. A volte acconsentiva, più spesso rimaneva a dare una mano ai ragazzi in difficoltà. A noi dello staff chiedeva poi mille cose per i suoi carcerati. Quando arrivava non si poteva stare tranquilli. Qualcuno fuggiva. Era spesso al telefono a parlare con fidanzate, mogli o mariti, figli o fratelli dei carcerati che poco o nulla sapevano di loro e diceva quel che s’era appuntato sul suo taccuino. Parlava con gli avvocati, interpellava nel carcere chiunque potesse darle una mano, per tutti c’era qualcosa da fare per aiutare quei poveretti, per tentare la ricostruzione di una personalità che si stava perdendo.
Aveva preparato una cinese a ricevere il battesimo. Quando il Papa era stato a San vittore l’aveva baciato sulle guance. Tra i carcerati un tripudio. Raccontava commossa queste belle cose.
Da dove dunque questa energia d’amore?
Suor Ada, per anni, a quanto ne so io, il mattino alle quattro scendeva nella cappella del convento e si tratteneva a colloquio con Gesù, il suo Sposo. Per due ore a parlare con Lui. Lei e Lui, soli, come due innamorati. Così mi diceva. E a sentire come ne parlava era proprio innamorata. “Per due ore cosa gli dici?”, chiedevo “e tutti i giorni”, era per me una cosa da capogiro! “Ho tante cose da raccontargli, tante cose da chiedergli”. Tutto quello che le capitava, i sentimenti che provava, i consigli e i giudizi che dava, le cose che non capiva, le sue imperfezioni, ecc. le portava a Lui. E Lui ascoltava. Ne usciva consolata e più sicura della strada da percorrere. Ecco il punto di riferimento, il punto con cui cercava di coincidere, insieme alla sua comunità, la superiora, il Papa, don Bosco e… insieme a tante cose belle ascoltate e viste a Portofranco. Tra il carcere, Portofranco e il suo Gesù c’era una reciprocità e qualcosa da imparare sempre. La realtà, nella sua totalità, conteneva tutto ciò di cui aveva bisogno: ella non censurava niente, tutto cooperava al bene. La realtà, un grembo in cui si può crescere e un interrogativo sempre più frequente: “Come si comporterebbe Gesù oggi, con ciascuno di loro?”
Notavo, mentre si svolgeva questa avventura, che ella scopriva nella sofferenza, nell’abbandono, nell’angoscia di questi poveretti qualcosa per cui non poteva lasciarli, per cui doveva aiutarli, scomodando sé e tutti quanti eran con lei, una strana attrazione, un centro di gravità. Cos’era che esercitava su di lei questa strana attrazione? Era quel Gesù, delle quattro di mattina, che era nascosto e sfigurato in quei cuori, inconsapevoli, che ella sempre più chiaramente vedeva e che la chiamava a sé. Ecco perché aveva deciso di non curarsi con la dialisi. I dottori e anche noi di Portofranco le avevamo detto che doveva fermarsi per curarsi, ma ella aveva deciso che non era possibile
Ma chi la chiamava? C’era qualcuno che la obbligava a quella scelta? Tra noi, normalmente, ci si dice di curarsi, innanzitutto. Ella non poteva fermarsi. Io davanti a questa cocciutaggine, buttavo via la testa. Un giorno avevo chiesto a Sandro, un medico volontario a Portofranco, di telefonare alla superiora perché intervenisse con la sua autorità e la costringesse a curarsi.
Il dado era tratto da tempo. Negli ultimi mesi avevo capito che era una battaglia persa perché c’era di mezzo il suo Sposo. Eran troppo forti insieme, quei due. Non era dunque un imperativo morale quello che le impediva di curarsi, era il suo Sposo che sempre più coincideva con quei poveretti crocifissi. E io che da buon pensante le suggerivo di attaccarsi a quelle macchine per il rene e dire il Santo rosario e leggere. Proprio non capivo. E me lo diceva in modo brusco e secco, come sapeva fare lei, quasi scostante “Tu non capisci proprio niente!” Ora si, ora vedo bene. Suor Ada aveva deciso di raggiungerlo, quando l’avrebbe chiamata. Più volte me lo aveva detto, ma io pensavo che era la frase di una suora. Invece era vero. Fatico a scriverlo, ma suor Ada aveva accettato volontariamente di soffrire e di offrire la sofferenza per quei poveri carcerati. Questo scambio difficile da capire rimane per me la testimonianza di cosa possa l’amore per Cristo e un amore che riempie la vita. Son cose inconcepibili al di fuori di un grande amore.
Un’ultima cosa rimane da dire (tante altre mi aiuterà lei a scoprirle): quel sorriso che la faceva così bella, che non si poteva né inventare né comprare in nessun modo, perché era il dono, per lei, del suo Signore, tutti a Portofranco, piccoli e grandi l’hanno visto. Non tutti conoscono il segreto di quel sorriso, visibile anche nella lunga malattia e sofferenza. Potrebbe essere quello il punto di partenza per capire la sorgente d’una vita così piena, così affascinante. Quel sorriso, che a tutti noi piacerebbe, ella lo chiedeva alle quattro di mattino al suo Sposo che, con lei, era molto generoso. Noi lo possiamo mendicare anche in altro orario, più comodo, perché il suo e nostro Signore è così ricco che ne ha per tutti.
Quando toccandole le guance le dicevo suor Ada, Suor Ada, sono il Giovanni, sono il Giovanni, le volevo dire di ricordarmi, come io mi ricorderò di lei nelle mie preghiere e di salutarmi la mia Luisa per la quale ella aveva molto pregato perché fossimo sereni nella malattia, perché, mi ricordava, dopo la morte ci sarebbe stato il Suo abbraccio, il Paradiso.
A Portofranco con questa suorina è toccata una bella Grazia, una grazia originale. Spesso ci diceva che aveva imparato fra noi a stare in quel modo a San Vittore. E più volte, in diverse assemblee, anche di salesiani, era intervenuta per raccontare la sua esperienza a Portofranco. Era molto orgogliosa e contenta. Sentiva la necessità della testimonianza. A me toccava leggere i suoi interventi, sempre ben scritti, perché, diceva lei,” mi devi dire se van bene”. Se però osavo dire che mi sembrava ci fosse un po’ di esagerazione, subito mi ammoniva: “Non capisci niente!” Ora tocca a noi vivere con questa profondità e passione l’aiuto allo studio ai nostri ragazzi che delle cose dette hanno un gran bisogno, come noi, del resto.
Con gratitudine Giovanni
Piero Rusconi
Due note sull’ingegner Piero Rusconi
Piero viene a Portofranco da quando ha aperto i battenti nel 2000. Tre volte la settimana. Fedelissimo. Sempre in grande anticipo sull’inizio delle lezioni per scambiare qualche parola con chi sedeva a fianco a lui all’ingresso. Io spesso mi sedevo con lui. Una memoria di ferro. Aveva lavorato una vita alla Telectra. Mi piaceva sentirlo parlare dei primi computer enormi e della loro evoluzione. Poi, andava in aula di matematica e chimica in fondo al corridoio, dove sedeva sempre allo stesso tavolo, senza muoversi per tutto il pomeriggio, con i ragazzi, che Momo e compagnia, gli assegnavano. 22 anni di fedeltà, di gratuità. Gli ultimi anni era spesso provato dalla malattia e dal dolore per la morte di sua moglie. Con l’apparecchio dell’ossigeno suo compagno fedele. Alcuni volontari di Portofranco, negli ultimi mesi, lo andavano a prendere a casa e lo riportavano perché da solo non se la sentiva più. Poteva rimanere a casa, pensavo, ma Piero, doveva venire a Portofranco. Perché doveva venire, e fino alla fine dell’anno? E, per un compito non comandato. Cosa lo spingeva? Mi pareva esagerato. Nel donarsi gratuitamente Piero, trovava non so qual soddisfazione…
Una sosta fissa, nell’accompagnare i genitori a vedere e conoscere Portofranco, era davanti all’aula dove l’ingegner Rusconi aiutava i ragazzi in matematica. Facevo notare loro la grossa manciata di caramelle sparse sul tavolo e spiegavo che da 20 anni quell’uomo veniva a Portofranco, 3 volte la settimana e, tutti i giorni, quelle caramelle eran lì, donate a chi le prendeva. Più di 2 quintali ne aveva regalate
Entravo, prendevo le 3,4,5 caramelle per i genitori che mi seguivano e le distribuivo loro, tenendo per me, la “Moretto”, che l’ingegnere sapeva, la mia preferita. Sottolineavo la sua generosità, la dedizione a migliaia di ragazzi, una pazienza e una calma invidiabili. Una grande accoglienza per tutti. Qualche mamma si emozionava fino alle lacrime. Quando vedevano l’apparecchio dell’ossigeno restavano increduli. Molto spesso, dopo averle salutate, mi dicevano di ringraziare i volontari per il bene che facevano ai loro figli e un saluto particolare per l’ingegnere delle caramelle.
Ma, un giorno, prima di andare a casa, sedette con un viso un po’ scuro. al mio tavolo e “oggi ho perso tempo” ma doveva scappare. Così lo salutai. Poco dopo arrivò il ragazzo che aveva fatto lezione con lui. “Come mai l’ingegnere mi ha detto che ha perso tempo con te?” “Professore” scuotendo la testa e battendo il pugno chiuso sulla fronte “la matematica non entra nella mia testa. È vero, non ho capito niente, abbiam perso tempo. Ma l’ingegnere è stato con me un’ora. Ha perso un’ora con me” Sembrava quasi felice. “Un ingegnere (chissà cosa guadagnava) che perde tempo con me dove lo trovi?” era contento. E poi era una cosa immeritata. Il giorno dopo racconto a Piero di quel breve dialogo e insieme sorridiamo. Quel giorno è stato più chiaro a tutti che il tempo perso con questi ragazzi è prezioso quanto quello che ottiene risultati. Forse più prezioso. E che un compito, comandato, c’è. Il bene di questi ragazzi. E, in questo bene, una prima nostra soddisfazione.
Giovanni
I PROFUMI DI PORTOFRANCO
I PROFUMI DI PORTOFRANCO
E’ un po’ di anni che lavoro a Portofranco e qualche volta scherzando con alcuni ragazzi con cui sono più in confidenza, prima che mi dicano cosa debbono fare ( matematica , greco ..) e trovandoli un po’ incerti, li anticipo chiedendo se son venuti per assaggiare i nostri tagliolini ai funghi, il nostro filetto, i nostri dolci ….. quasi si debbano sedere, invitati, a una tavola riccamente imbandita e ….scoppiamo in una risata !
Portofranco è una tavola riccamente imbandita. Quanti volontari giovani e adulti che offrono filosofia, economia, inglese …e quanti ragazzi che hanno una buona fame. Attorno alla tavola quante storie, quante conoscenze sudate, quanti caratteri e impegno e volontà e serietà e disponibilità e dedizione e desideri e dolori e ilarità e scoppi di risa e irritazione trattenuta : che varietà infinita di beni attraverso cui , un po’ , si attinge l’anima o il sapore di ciascuno : polveri di virtù che riempiono la vita ! Raramente è capitato , in questi anni, che qualcuno abbia disdegnato questa bontà e se ne sia andato. Non aveva questa fame.
E a tutti è evidente che tutto ciò che è dato , gratis, a PF., dalla struttura, da poco rinnovata , ai volontari, così numerosi, è a prezzo di gravi sacrifici sostenuti dalla passione alla persona. In questa varietà di offerta nessuno rimpiange di essersi “lesinato”: si vedono a volte volontari uscire dall’aula , esausti , perché han dato molto, ma anche parecchi ragazzi ,sfiniti , perché non avevano mai dato così tanto o volontari dire di aver combinato poco o pensare d’esser stati poco chiari o incisivi e ciò un po’ li abbatte e un po’ li obbliga a riflettere sull’esperienza fatta per essere più semplici e più pertinenti alla richiesta. Raggiungere la semplicità e l’essenzialità (dicono che i piatti più buoni siano i più semplici) è frutto di un lavoro che non finisce mai e che trova alimento nella gratuità di esserci e di poter dare con umiltà, perché l’altro con te faccia un piccolo passo ogni giorno ; se poi trova uno sguardo nuovo e più bello sulla vita , allora siamo quasi in paradiso.
Chi è volontario, per poter esaudire bene la domanda dei ragazzi, deve comprendere che essi vogliono , facendo i compiti e studiando , uscire dalla prigione della incapacità e dell’inerzia che li avviliscono ed esser contenti.
Che bello quando nei corridoi , ai ragazzi che vanno a casa, chiedo: come è andata? E mi sento dire: finalmente ho capito, finalmente sono riuscito e i loro passi si fan più leggeri perché il peso della incapacità o dell’inerzia è stato sollevato , perché ha trovato una volontà di aiuto più tenace del “non son capace”, perché ha intravvisto nel nostro sguardo un amore a lui, una speranza per lui !
Che gioia quella di un ragazzo che si è visto guardare con bontà e che bello vedere ora un riflesso di quella bontà sul suo volto. Si, la qualità della bontà è di risplendere!
Quanti genitori con cui parlo mi riferiscono , con sorpresa, che spesso i loro ragazzi tornano a casa contenti, affaticati ma contenti e che a cena parlano di quello che è successo a PF.
Di tutta la diversità che c’è a PF., diversità di età, di cultura, di etnia, di religione, che cosa ne fa una famiglia? Tantissimi infatti avvertono che c’è aria di famiglia. La cultura e il sapere che si spezzano nelle aule?
Si raccontava al mio paese, quand’ero piccolo, di un povero che in autunno , di casa in casa, elemosinava cibo e vestiario . Era ben voluto e dormiva per due settimane in un fienile . Non lo si vide per alcuni giorni. La gente si preoccupò e lo cercò. Alcuni uomini lo trovarono morto nel fienile : aveva un pane in mano. Glielo aveva dato un giovinastro che lo disprezzava.
C’è un pane che noi spezziamo con i ragazzi, il pane della conoscenza , del leggere e capire , del tradurre e del risolvere, un pane offerto con rispetto , attenzione , amore. E’ questo amore che vivifica , rende tutto più bello , accettabili anche le materie più dure , che non piacciono . E’ questo amore che fa una famiglia.
Quando faccio gli ultimi passi che da S. Agostino mi portano a PF. , per me , primo tra i poveri di desiderio e di sguardo , domando una porzione sovrabbondante di amore perché non limiti il desiderio di nessuno e nessuno sguardo mi sia indifferente . Se penso poi che al terzo piano le vivande van servite con gioia e benevolenza , allora mi soccorre spesso un canto che vien da lontano la cui bellezza rallegra la mente e spalanca il cuore : “ Egli è il tuo bon Jesù che ti darà il suo Amor “. Con questa musica nel cuore cammino e non ho mai conosciuto la delusione; un certo rimpianto, si , per non essermi accorto dei doni ricevuti o per aver poco donato o donato senza gioia .
Quando è ora di tornare a casa, quanti volontari si sentono ripagati da un grazie e prima ancora da una faccia soddisfatta di aver capito, di aver capito di valere, di valere almeno per chi hai difronte e di non aver sprecato inutilmente il tempo .
A ben vedere a PF. si fan piccole cose . Ma una piccola cosa e un grande amore fanno una cosa grande .Succede poi a PF. che qualcuno dica : quel ragazzo è uno spettacolo , quell’uomo è uno spettacolo. Spettacolo- miracolo . E molti genitori, i più semplici, che guardano bene le cose e le pesano, capiscono, senza ombra di dubbio, che l’amore che corre in soccorso , non è mai poca cosa .
Infine tutti quelli che per la prima volta arrivano a PF. e vedono quel che si fa e ne ascoltano brevemente la storia , si accorgono del buon profumo di questa tavola così imbandita e alcuni , a volte , vorrebbero tornare giovani per frequentarla e gustarla .
Buon appetito Giovanni
P.S. Molti ci dicono : state facendo una cosa preziosa . Che bello partecipare alla costruzione di una cosa preziosa : introdurre un giovane in uno sguardo e un cuore nuovi , rallegra tutti .