Costituzione e giustizia: c’è un valore redentivo della pena?

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Costituzione e giustizia: c’è un valore redentivo della pena?

Il terzo incontro dei Pomeriggi Maturandi ha visto i nostri ragazzi del 5 anno affrontare il grande tema della Giustizia ospitando a Portofranco Marta Cartabia (già Ministro della Giustizia e Presidente emerito della Corte Costituzionale) e Adolfo Ceretti (Docente di criminologia all’università Milano Bicocca).

A volte sembra che parlare di giustizia, pena e rieducazione dei condannati possa riguardare le alte sfere dei palazzi del tribunale, ma, riflettendo meglio ci si accorge che la realtà di ciascuno di noi è costellata da piccole o grandi giustizie-ingiustizie con cui spesso il nostro io deve fare i conti.

Inoltre, alcuni drammatici fatti di cronaca ci hanno molto sollecitato ad approfondire il tema.

Due affermazioni dei relatori ci hanno colpito:
l’articolo 27 della Costituzione afferma: “Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato”
– la seconda, che riprende una frase del Cardinal Martini: “Rendere giustizia non è giustiziare il colpevole ma fare giustizia alle vittime e a tutta la società”

Cosa significa quindi fare giustizia alle vittime e a tutta la società? E ancora: come si può appagare il bisogno di giustizia in noi e nella società?

Marta Cartabia
La giustizia ci tocca direttamente. Una ingiustizia subita e non superata, “non ricomposta” è destinata a scavare nella personalità, è una cosa seria con cui ciascuno di noi si trova a fare i conti. Come affrontarla? Possono essere molte le reazioni: desiderio di vendetta, paura, Come reagiamo? Nel contesto culturale di oggi due sono le modalità comportamentali: un atteggiamento garantista che tende a tutelare il colpevole a oltranza oppure, all’opposto, la visione giustizialista che sottolinea l’importanza della pena e della reclusione carceraria.

La frase del Cardinal Martini e l’articolo 27 della nostra costituzione hanno una cosa in comune: senza sorvolare sulla necessità di fare giustizia, ambedue affermano che la punizione pur necessaria, se fine a sé stessa, non serve a nulla. La pena non ha la finalità né della vendetta né dell’umiliazione ma della rieducazione, cioè “cercare una strada diversa”.

Proseguendo nel ragionamento ci si è chiesti: quando un sistema di punizione ha conseguito l’obbiettivo di iniziare un nuovo percorso? Quali caratteristiche deve avere?

Adolfo Ceretti
Nel suo intervento ha iniziato con la citazione dell’incipit di un libro: “la giustizia sembra essere solo un rapporto con le istituzioni, la politica etc. dimenticando che spesso quello che avviene di giusto o ingiusto nella nostra vita, ha a che fare con le scelte e i comportamenti che mettiamo in atto nelle relazioni quotidiane in cui ci accorgiamo delle offese che ci recano gli altri…ma mai delle nostre”.

Il senso di ingiustizia lo avvertiamo su di noi quando veniamo disconosciuti, cioè quando qualcuno non ci guarda con gli occhi con cui desideriamo essere guardati.

“Il senso di giustizia – dice Ceretti – nei tempi ha assunto dimensioni diverse: per la mia generazione era la giustizia sociale, l’emancipazione a tutti i livelli, l’abbattere i tabù, per voi giovani di oggi sembra essere riconosciuti e accolti dagli altri senza essere messi in discussione. Se questo non avviene, ai avverte un forte senso di ingiustizia e quindi rabbia e smarrimento in noi stessi”.

Questa la caratteristica di molti adolescenti, non solo di quelli ”difficili”. Questi gli aspetti comuni di questa generazione.

È difficile quindi parlare di giustizia – ingiustizia, anche se uno le vive come tali. Sono ferite che toccano quella parte di noi essenziale per avere uno sguardo positivo su noi stessi. È quel rapporto che riguarda un “io” e un “tu” che portati agli estremi sfociano in atti penali come il bullismo o il razzismo o molto altro.

Come fare giustizia rispetto alle vittime?
Occupandoci di ragazzi difficili, da molto tempo abbiamo iniziato a pensare, a costruire modalità di dialogo per fare uscire le persone dall’ enorme senso di colpa, di sofferenza, di negazione di sé, che pur esiste a prescindere dal pagare l’errore con la pena, pur giusta. 

Come mettermi in relazione con l’altro a cui ho fatto del male, avere il coraggio di alzare la testa e non rimanere chiuso, blindato, definito da ciò che ho fatto, da ciò che ho ricevuto?
Attraverso la c.d. “riforma Cartabia” è stato pensato di fare entrare in un percorso di giustizia proprio questa possibilità di offerta di dialogo tra “colpevole” e “un altro che ti ascolta”. Nell’assegnazione della pena (pur giusta) il colpevole è l’oggetto di questa assegnazione e, se lo desidera, può diventare protagonista di un percorso positivo.

Domanda: ma allora c’è nel lato punitivo della pena anche la possibilità che questa diventi anche un atto redentivo? E quali le condizioni, quale possibilità di rieducazione?

Marta Cartabia 
E’ proprio guardando alcune storie di vera rinascita, come quella di Daniel Zaccaro (e anche molte altre) che possiamo affermare che una pena può portare alla rieducazione. Ma come? Non ci sono ricette, una serie di passaggi che portano automaticamente alla rieducazione, ma sempre storie personali, di libertà, di voglia di cambiare, sicuramente mosse da incontri significativi: qualcuno che ti viene incontro e provoca la tua libertà, ti sfida, qualcuno che ti aiuta a comprendere te stesso, a prendere coscienza di te, del tuo bisogno male espresso, ma vero: se non ci sono incontri così, non basta il potere di punire per poter rinascere.

Adolfo Ceretti
La giustizia punitiva è una giustizia “contabile“, cioè hai fatto male, quindi paghi; anche se è importante come segnale ed è “uguale per tutti”, ha una sua funzione. Ma dopo la sentenza definitiva inizia un’altra storia, sei tu con te stesso e puoi essere lasciato solo oppure puoi essere accompagnato a un’autoriflessione. Mentre infatti racconti a un altro quello che ti è accaduto, lo racconti a te stesso, prendi coscienza di quello che ti è accaduto, perché questa è la modalità con cui prendiamo coscienza di noi stessi, tutti: il dialogo. Non sappiamo chi siamo fino a che non abbiamo la possibilità di raccontarci a un altro che ci ascolta, con cui possiamo dar voce alle ferite che ci portiamo addosso e che in molte situazioni generano reazioni di violenza, ce n’è piena la cronaca ogni giorno!

Domanda: allora cosa accade in questi incontri fra il colpevole e la vittima?

Adolfo Ceretti
E’ una possibilità offerta a responsabili e vittime di lavorare su come restituire a quel prima perso, un futuro. Ritornare a vivere senza odio, senza rancore che ancora definiscano il nostro io intero. Questo avviene concretamente incontrandosi con una terza persona capace di far lavorare le due parti (vittime-colpevoli) sulle proprie ferite, sui sentimenti provati.

Marta Cartabia
Questa sfida è stata accolta a livello istituzionale e si sviluppa parallelamente alla giustizia penale, è una sfida culturale epocale.
La Giustizia Riparativa non è imposta per sentenza ma è offerta ed è possibile praticarla col consenso di ambedue le parti. È come una possibilità offerta per riprendere a guardare la propria vita lasciando la porta aperta per far entrare una novità che può far accadere una nuova speranza!

di Franca Silva e Marco Rossi

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