Era da poco trascorsa la breve estate di San Martino, l’inverno era ancora lontano ma il suo arrivo già era nell’aria, stavamo aiutando la mamma a sparecchiare.

Avevamo finito il pranzo.  Eravamo alcuni dei dieci fratelli. Era il 1958, avevo dieci anni, quando il campanello suonò.

“È un povero“, gridai.

La mamma accorre.

Venga, venga, “ch’el vegna”. E lo fa accomodare nella sala da pranzo dov’era rimasta ancora la tovaglia.

Le sorelle stavano lavando le stoviglie.

Con la solita sollecitudine fa sedere il povero e porta un piatto di minestra che era ancor calda nella pentola. Un pane. Un bicchier di vino e una mela. Poi attorno a lui, a far corona, noi tre e la mamma. Le sorelle si sarebbero aggiunte a noi più tardi. 

Era anziano, rarefatti i capelli,  un po’ appiccicati e forse unti. I vestiti logori e sporchi. Gli occhi bassi, s’alzavano e s’avvivavano quando la mamma gli parlava e lo guardava. Premurosa.

Volete andare in bagno?

Non gli sembrò vero.

Tornò con le mani pulite.

Mi piaceva la mamma che metteva a suo agio, il povero.

Inizialmente imbarazzato mentre mangiava perché si sentiva addosso tutti i nostri occhi. Avevamo i gomiti sul tavolo, le mani a sostenere il mento, in silenzio e lo guardavamo curiosi.

“Da che paes te vegnet?” (da che paese vieni?).

“Da Veran” (era anche il paese d’origine della mamma).

“In due’ te dormet?” (dove dormire?).

“Sul fenil in casina”. (Sul fienile in cascina).

“Adess vegn l’invernu! El farà  frecc”…dice la mamma (adesso vien l’inverno! farà freddo).

Ci veniva una gran voglia di far domande, ma la mamma voleva stessimo zitti.

Temeva dicessimo qualcosa di sconveniente.
Che l’offendessimo.

“Coume te traten in di ca due’ te vet?” (come ti trattano nelle case dove vai?).

“Eh…minga semper ben…certi voelt me cascen via…me vusen adre’brut paroi..me despias. 
Me trema ul coeur,  certi voelt, quant speci che derven la porta.(eh…non sempre bene…a volte ni cacciano via…urlando dietro brutte parole…mi dispiace. Certe volte mi trema il cuore quando aspetto che aprano la porta)”.
“Che’ me troevi ben…che’ ghe’ brava gent” (qui mi trovo bene…qui c’è brava gente).

Poi la mamma andò in un locale dove teneva sempre qualcosa per i poveri: un paio di scarpe, un maglione, della biancheria, un cappotto. 

Per lui c’era, quella volta, un cappotto del papà, ancor dignitoso. Bella lana.

Gli stava un po’ grande ma…”che bell“, disse lui.

Poi in un sacchetto due panini, un frutto, un po’ di formaggio e due uova sode.

“Grazie, grazie”  e noi “buongiorno buongiorno”. 

“Ritornate. Vi aspettiamo”. 

Quando si alzò dalla sedia gli occhi della mamma corsero sul cuscino dov’era stato seduto e così anche i nostri occhi. Una macchia di sangue scuro appariva, larga.

Salutatolo ritornammo in casa, ma la macchia di sangue era scomparsa.

Ricordo così chiaramente quell’incontro così speciale, così speciale per i modi, verso quel povero.

La mamma, ogni tanto, con semplicità, ritornando a quel pomeriggio diceva che Lui aveva visitato la nostra casa. E si commuoveva. 

Eran vive ancora e familiari, quand’ero piccolo, le parole dette un giorno da Gesù ai suoi discepoli: chi darà un bicchier d’acqua a uno di questi piccoli, l’avrà dato a me.

Come è bello ricordare oggi agli amici di Portofranco questo episodio famigliare, perché qui a Portofranco ogni giorno capita d’essere benvenuti, come quel pomeriggio d’autunno, a casa mia, capitò a quel povero. E noi sappiamo bene che, più che da 1000 raccomandazioni soffocanti, saranno aiutati i nostri ragazzi, dai gesti che avranno visto da noi: gli affetti semplici, la stima vicendevole, l’aiuto a capire, certe facce e il gusto delle cose belle.

E forse più di ogni cosa a Portofranco si sta bene perché si può sperimentare l’amor fraterno.

di Giovanni Borgonovo