Evviva l’imprevisto

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Evviva l’imprevisto

A Portofranco è tempo di iscrizioni. Arrivano i ragazzi: molti tornano, molti si iscrivono per la prima volta. Ogni ora, per adesso, quattro colloqui, ma più avanti, se potremo continuare “in presenza”, cresceranno di numero e i pomeriggi si faranno più intensi ancora.


Nei colloqui riprendiamo i rapporti dopo la pausa estiva, ci ricordiamo dunque delle persone e delle loro storie, e tentiamo di comunicare, soprattutto ai nuovi, cos’è Portofranco e cos’ha di speciale per noi e, lo speriamo tanto, per loro.


Questo era il pomeriggio che mi aspettavo. Invece si avvicina Margherita e a bassa voce mi fa: “c’è un colloquio … motivazionale!”. Boh?! Compare un giovane uomo, alto, magro, come tutti mascherato, però si capisce che è grande e non è un ragazzo.


“Buongiorno. Mi chiamo … Vengo da Casale e son venuto da voi perché ho bisogno di qualcuno con cui parlare del mio insegnamento …”.
A sentir nominare Casale qualcosa mi si smuove dentro. Gli dico che anch’io sono piemontese e che mia madre è di origine monferrina e ancora ha una casa a Castelnuovo Don Bosco, nientemeno, che è poco distante da Casale. E subito, son fatto così, mi vengono in mente i colli, il vino e le parole piemontesi, anche perché, lui, un po’ di accento ce l’ha. Mi accende anche il suo cognome, che non riporto per discrezione, ma che contribuisce alla musica del nostro incontro. Ad ogni modo è uno tra i seguenti diffusi nel mio paese: Bargetto, Rebaudengo, Musso, Viarengo.


Prosegue con la sua storia: è fresco di ruolo, ha insegnato otto anni nei licei, così ora, in conseguenza del concorso vinto, ha ottenuto la cattedra in un istituto tecnico ed è preoccupato. “Cercavo qualcuno che avesse insegnato nei tecnici e mi hanno indirizzato da Lei. Come posso insegnare bene nella nuova scuola?”
Non è venuto a cercare materiali didattici o a discutere in astratto di pedagogia, gli preme, se ho ben capito, imparare a comunicare coi ragazzi di un Itis, gli interessa sapere come entrare in classe, perché e come insegnare.


Gli rispondo come so, ma intanto mi colpisce un’analogia tra me e lui, tra la mia storia trascorsa e la sua iniziata: ho insegnato per ventun anni negli istituti tecnici e per i successivi ventuno nei licei. A colui che spero diventi un mio nuovo amico succede la storia inversa. Ancor più però mi colpisce la sua domanda e soprattutto che per trovare risposta si sia messo in viaggio.


È venuto a Portofranco, a Milano, in viale Papiniano, me l’ha confidato in seguito, in un luogo che ha visitato dieci anni fa! E che ricordava come un posto bello.

Insomma, anche noi siamo agitati da domande, ma il più delle volte ci limitiamo a pensarle e poi magari a dimenticarle presto. Lui invece, per seguire la sua domanda, si è sobbarcato chilometri!
Che grande lezione di metodo ho ricevuto e quale inattesa risposta ad una domanda che invece agitava me, da quando abbiamo ripreso la vita di Portofranco. Ma io perché vengo? Perché dare gratuitamente tre pomeriggi a settimana? Perché insomma “faccio il volontario”?  E qual è la ragione adeguata per farlo? Eh, noi siamo capacissimi di compiere lodevoli azioni per ragioni anguste! Per senso del dovere, perché, se no, non siamo cattolici doc, per una certa qual vergogna sociale o per il senso del peccato che ci sovviene se restiamo sul divano.

E’ per gli imprevisti fatti che vengo a Portofranco. È perché mi pare d’aver capito che mi conviene, assai più del divano, attendere l’imprevisto.

(Mario Triberti)

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