Il sapore dei fatti.

Il sapore dei fatti
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Il sapore dei fatti.

Sapere deriva da sapore, ha la stessa etimologia. Saperlo, cioè sperimentarlo, costituisce un grande antidoto ad ogni intellettualismo, alla presunzione di ritenere che il primato risieda nei nostri pensieri e non nell’esperienza che si fa, nella realtà che accade. Grazie a Dio ci sono i fatti. Alcuni li trovate qui di seguito.

Ieri ho parlato a lungo con un ragazzo. Arrabbiato con la mamma arrabbiata. La causa: le notti perse coi videogiochi e i giorni trascorsi a dormire. Mi è venuto in mente quanto dissero a me, tanti anni fa, a proposito dei miei, con cui ero arrabbiato: chiedersi sempre il perché mamma, papà, professori, adulti, tutti … fanno così come fanno e giudicare su quello. Non fermarsi al come. Un criterio che mi aveva aiutato a vedere quanto bene in realtà mamma e papà mi volevano. E a giudicare oltre alle apparenze. Alla fine della chiacchierata, sulla soglia della stanza, lui si volta e mi abbraccia. Io groppo in gola.

Premio Don Giorgio, quello che intende premiare i desideri. All’ultimo minuto della data di scadenza arriva una ragazza col suo. Mi spiace, dice, ci ho messo tanto. Si è rotta la stampante e poi ci siamo preparati insieme, a casa. Aggiunge che, per aiutarla ad esprimere il suo desiderio, tutta la famiglia si è riunita attorno al tavolo della cucina. Ciascuno a dire la sua. A partire dal nonno, che a tutti i costi voleva che chiedesse la pace in Ucraina, fino a ritirarsi in disparte, offeso, perché gli altri non erano d’accordo, mentre la nonna affettuosamente rideva. Bello che Portofranco sia stato motivo di una riunione di famiglia!

Festa di fine anno, consegna dei premi. Una ragazza viene chiamata sul palco perché ha vinto. È così felice che quasi balla, mentre attraversa il salone. Più tardi ci chiede, lei che è all’ultimo anno, perché in quinta: “secondo voi posso tornare l’anno prossimo? Non voglio perdere un posto come Portofranco!”.

Colloquio con un volontario, grazie al quale abbiamo incontrato, un anno fa, un gruppo di carcerati di Bollate e in particolare Mario, un recluso con un braccio solo ma appassionato artigiano. A lui dobbiamo il bellissimo faro collocato all’ingresso, realizzato da Mario con gli stuzzicadenti, un anno di lavoro, gratis, per noi. Poco tempo fa il direttore dell’istituto di reclusione ha letto la nostra lettera di ringraziamento ed è rimasto colpito, commosso, al punto di concedere a Mario benefici carcerari di cui non ha mai goduto.

Una mamma telefona, disperata perché la figlia, che prima a scuola andava quasi bene, ha mollato tutto e ha accumulato tante insufficienze con una fila di tre. Concordiamo un incontro, con mamma e figlia. Parla la mamma, lei torva e scura. Ad ogni sottolineatura del suo difetto, sempre più scura. Arrabbiata, perché messa davanti alla realtà nemica. Con la mamma, che gliela rammenta e l’ha portata a Portofranco, cui s’era iscritta senza venire più. E io le dico che la realtà non è mai nemica, anzi è per noi e le racconto come l’ho imparato, sulla pelle mia. E le propongo di frequentare Portofranco, anche se è bocciata lo stesso, che è come fare una cosa gratis, ma quanto conveniente, per lei! Finora è venuta.

Dalla segreteria mi passano la telefonata di John, un ragazzo con problemi agli occhi. L’avevo iscritto due anni fa e l’avevo seguito insieme alla sua prof di sostegno. Quest’anno si è visto poco. Mi chiede scusa perché non si è fatto vedere, pensava che io fossi per questo arrabbiata con lui. Mi dice che ha bisogno di Portofranco. Io mi commuovo per la tenerezza di John nei miei confronti e per il suo attaccamento a un luogo dove si è sentito voluto bene. Ha dovuto curare la sua sorellina ma l’anno prossimo andrà all’asilo e lui potrà tornare a Portofranco. Anche io cerco persone che mi vogliano bene e luoghi che mi aiutino a crescere.

Giugno. Salutiamo una volontaria che, per quest’anno, non verrà più. Lei, oltre ad insegnare inglese, fa la cantante jazz e tiene concerti. Spiace sempre un po’, quando, dopo un anno così lungo, il saluto è breve. Qualcuno chiede: perché non cantate qualcosa? E allora cantiamo, seduti all’ingresso. Brani della Bohème. La ceseta di Transaqua. Luntane chiù luntane … Qualcuno balla pure. Qualcuno, accidenti, scatta e riprende. Chi telefona alla segreteria chiede come mai si sente cantare. E il saluto altrimenti breve si fa lungo un’ora e più. Accadono momenti a Portofranco in cui non si vorrebbe più andare via.

Stamattina ho accompagnato per la prima volta mia nipote Giuditta dalla babysitter.

Col passeggino me ne andavo bel bello per viette secondarie, deserte, del paese.
Ogni tanto mi fermavo e guardavo Giudittina, felice. Cantavo, le parlavo, le indicavo il cielo e i fiori. Mentre così procedevo, un pensiero improvviso: vado ad affidare Giudittina ad una signora. Affido… e rimango sospeso su questa parola. Affido. Il pensiero non va oltre. Torna indietro a quando, giovani, a Luisa, mia moglie, e a me, i nostri figli venivano donati, affidati perché li crescessimo nell’amore.
Quale fiducia Dio riponeva in noi! Tornando a casa, solo, penso alle mamme di Portofranco che ci affidano i loro figli: alcune di slancio, altre trepidanti perché ci sono storie dolorose. Anche loro fissano i loro occhi nei nostri e vedono una compagine di cui ci si può fidare e se ne vanno più leggere e serene.
Noi siamo contenti di questa fiducia accordata e ci aiutiamo vicendevolmente per corrispondervi. C’è a Portofranco una strana fraternità il cui segreto è tutto in quel cielo che tutti, ogni tanto, guardiamo ammirati e che, d’un bell’azzurro, ci colora.

Il bello dei fatti è che non sono “fatti” da noi. E noi magari ci ostiniamo a pensare d’avere l’esclusivo governo della faccenda, quando invece soli non siamo.

a cura dello Staff di Portofranco

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